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CR News – Febbraio 2013  •  Volume XIV, n. 10

La Via di Dio nel Santuario (1)

Nella parte d’apertura del Salmo 77, Asaf è pesantemente afflitto. Cosa lo travaglia? È qualche terribile malattia, oppure un peccato grave? È l’opposizione dei nemici di Dio, oppure le calunnie verso il suo nome, o la decadenza della chiesa?

Se leggete il Salmo 77, vedrete che a queste domande non c’è risposta. Esso usa parole come “avversità” o “venir meno,” ma non specifica la causa di questi problemi. Che la natura della sofferenza di Asaf non ci è rivelata forse può deluderci, sebbene non dovrebbe. Ma dato che il nostro Padre celeste non ha voluto dircelo, significa che non abbiamo bisogno di saperlo. È proprio questo il punto infatti: in questo modo, qualunque sia la nostra afflizione, noi possiamo identificarmi con il Salmista e porci al suo posto.

Perciò, cos’è la prima cosa che Asaf fa in queste difficoltà? Egli prega – la cosa giusta da fare! “Nel giorno della mia avversità ho cercato il Signore” (2). Il verso 1 aggiunge che la voce di Asaf “si eleva a DIO.” La parola “voce” è usata due volte, e questo per dire che era una preghiera orale e non solo mentale. L’ardente desiderio di Asaf era quello di parlare a Dio ad alta voce.

Quale fu il risultato di questa preghiera fervente? Asaf dice, “l’anima mia ha rifiutato di essere consolata” (2). Egli non ricevette consolazione. Egli non esperì conforto nel suo cuore e anima. Avete mai sperimentato questo, cari fratelli? Nessun conforto! Nessuna consolazione, anche dopo molte ardenti preghiere! Si rimane abbattuti e scoraggiati nell’anima dopo aver cercato il Signore! E questo crea al credente un secondo problema: “Cosa c’è di errato nelle mie preghiere? Perché Dio non ascolta? Forse non si cura?”

Questo ci collega al tentativo successivo di Asaf: meditare su Dio. Il Salmista riconosce che ciò gli avrebbe arrecato sollievo, ed è vero, se fatto in un giusto modo e con il giusto spirito e secondo il tempi di Dio. Ma cosa accadde? “Mi ricordo di Dio, e gemo;
medito, e il mio spirito è abbattuto” (3, Nuova Riveduta). Asaf ricordò, rifletté e meditò sul Signore, sul Suo carattere, sul Suo regnar sopra ogni cosa, sui Suoi propositi e sulle Sue vie.

Il risultato? Egli geme (3) ed è ulteriormente afflitto! La sua situazione diventa anche peggiore! Il suo “spirito viene meno” (3), cosa che lo frustrò e confuse ancora di più. Perché tutto questo? Primo, egli era turbato e travagliato dalla sua iniziale afflizione. Poi, Asaf diventa spossato e scoraggiato dopo che la sua fervente preghiera “durante la notte” non gli portò alcun conforto (2). Ciò gli fece avere pensieri duri verso Dio e una certa amarezza nei confronti dell’Onnipotente. In tali circostanze, le sue meditazioni su Dio vengono facilmente distorte da Satana e volte non a confortare ma solo a scoraggiare maggiormente affinché il Salmista si senta sopraffatto. Avete mai provato tutto questo? La vostra mente è in agitazione. I vostri pensieri girano in circolo. Sembra non esserci via d’uscita. Il vostro spirito è stravolto.

Forse Asaf potrebbe trovare pace nel sonno? Ma voi sapete talvolta cosa accade. Siete turbati perché certe cose non procedono bene, ma dopo una buona nottata, esse non appaiono poi così male. Dopo essere stati agitati, riposare ci riporta alla sobrietà e ad essere lucidi. Ma il povero Asaf afferma: “Tu mantieni aperte le mie palpebre” (4). Le palpebre sono le sentinelle o i guardiani dei nostri occhi. Esse proteggono i nostri occhi (e di conseguenza il corpo) chiudendosi ogni notte per permetterci di dormire. Ma Asaf non dormì, non ci fu riposo per il suo corpo stanco né per la sua mente agitata. Ed era Dio che glielo procurava! Nella Sua provvidenza, la quale governa tutte le cose in assoluto, Dio non lo lasciava dormire. Asaf era così scoraggiato e straziato con pensieri angosciosi che non poteva prendere sonno. Ma sapeva che Dio era in sovrano controllo anche su questo!

Questa stanchezza e stress mentale rendono le cose peggiori. Asaf si lamenta, “sono così turbato che non posso parlare” (4). Talvolta la preoccupazione è così grande che è uno sforzo troppo grande anche solo parlare, o forse il verso intende dire che Asaf era così scoraggiato da non voler parlare con alcuno.

Disperato, il Salmista tenta di consolarsi pensando alla chiesa del passato: “Ripenso ai giorni antichi, agli anni dei tempi passati” (5). Riflette sulla storia della chiesa antica: Israele, i patriarchi, gli antidiluviani. Egli guarda indietro cercando sapienza dal passato, non ricevendo tuttavia conforto.

Dopo di che, Asaf richiama alla mente giorni migliori della sua vita. “Forse,” egli pensa, “questo mi incoraggerà.” “Durante la notte mi ritorna alla mente il mio canto” (6), Quei bei tempi con il Signore quando il Salmista andava a letto cantando le Sue lodi con gioia e allegrezza. In sé stessa, questa è una cosa buona da fare in tempi di distretta, buona come molte delle altre cose che Asaf tentò di fare. Ma queste cose non devono essere fatte in uno spirito di protesta e di mormorio oppure di autocommiserazione (Ecclesiaste 7:10).

Segue poi Asaf impegnato un un’autoanalisi: “Durante la notte mi ritorna alla mente il mio canto, medito nel mio cuore e il mio spirito investiga” (v.6). Ma nelle cogitazioni e nelle domande di Asaf era misto anche una certa misura di mancanza di fiducia in Dio: “Mi rigetterà il Signore per sempre? E non mi gradirà mai più? È la sua benignità cessata per sempre e la sua parola venuta meno per le generazioni future? Ha DIO forse dimenticato di aver pietà e ha nell’ira posto fine alle sue compassioni?” (7-9). Vedete il guaio nel quale il Salmista si è cacciato? Egli sta dubitando del favore (7), della misericordia (8), della grazia (9), e delle compassioni (9) di Dio, e quindi sta dubitando della promessa pattale di Dio (8), cosa che lo fa sentire rigettato (7).

Ma Asaf non è un totale miscredente. Il figlio di Dio non perde mai la sua fede del tutto. Egli potrebbe sentirsi rigettato al momento. Attualmente, egli potrebbe non sperimentare i benefici del patto di Dio, ma il Signore farà sempre tornare indietro tutti i Suoi figli e figlie.

Noi ci troveremo in un terreno pericoloso se dovessimo dubitare del grazioso favore di Dio, perché nella misericordia di Dio e nella promessa in Gesù Cristo giace l’intera nostra salvezza. Vedete quanto il Salmista è andato peggiorando dal suo dolore iniziale? Per fare eco allo stesso Asaf usando un suo Salmo precedente: “Ma quanto a me, quasi inciampavano i miei piedi, e poco mancò che i miei passi sdrucciolassero” (73:2). “Quasi” – quasi, ma non del tutto!

Quel “quasi” (ma non del tutto) è una testimonianza di come Geova preservi i Suoi santi, tanto che a volte il figlio di Dio resiste appena! Credete alle promesse di Dio in Gesù Cristo! Non lasciatevi andare ai vostri dubbi e alle vostre paure e preoccupazione e non abbandonatevi all’autocommiserazione! Non iniziate mai a percorrere questa spirale verso il basso, amati! Rev. Stewart


Il Re Predica il Regno

Domanda: “In Luca 9:2, Cristo manda i Suoi discepoli a predicare il regno di Dio, tuttavia pochi versi dopo dice “di non dirlo ad alcuno,” cioè, che Lui è il Cristo. Come fate quadrare la predicazione del regno senza l’annuncio di chi è il re? Quale è il punto nel comandare di ravvedersi e di confidare in un Messia che ha da venire senza però identificare questo Messia?”

Il passaggio di riferimento dice quanto segue: “E li mandò a predicare il regno di Dio e a guarire gl’infermi” (2).

Non mi è chiaro a quale verso ci si riferisce quando il nostro amico dice, “tuttavia pochi versi dopo dice “di non dirlo ad alcuno,” cioè, che Lui è il Cristo.” Quello più vicino che posso trovare è in Luca 9:21. Ma questo comando Gesù lo diede in circostanze completamente diverse. Gesù e i discepoli si trovavano in Cesarea di Filippi; Gesù chiese loro: “Chi dicono le folle che io sia?” (18). Quando i discepoli gli riferirono che diverse persone pensavano fosse Giovanni il Battista o Elia o uno dei profeti risorto (19), Gesù allora chiese ancora, “E voi, chi dite che io sia?” A questa domanda Pietro fece la sua cruciale confessione quale portavoce dei discepoli: “Il Cristo di Dio” (20).

Ed è in questa occasione che Gesù “ingiunse loro severamente e comandò di non dirlo ad alcuno” (21). Ma lo stesso Cristo spiega il perché: “È necessario che il Figlio dell’uomo soffra molte cose, sia rigettato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, sia ucciso e risusciti il terzo giorno” (22).

In alter parole, Gesù non voleva che i discepoli dicessero ad altri chi Egli fosse perché l’ora della sua sofferenza e morte non era ancora giunto. Gesù non solo sapeva che la fine della Sua vita terrena sarebbe stata sul Golgota e che sarebbe dovuto morire per i peccati del Suo popolo, ma conosceva anche in che tempo. Quel tempo era, come Gesù spesso lo chiamò, la Sua “ora.” Era impossibile per Lui morire prima di quell’ora.

Inoltre, il motivo per il quale Egli fu ucciso dai Giudei corrispondeva esattamente a quello che Pietro confessò di Lui. Sebbene Gesù era sovrano su tutte le cose, compresa l’ora della sua morte, Egli non voleva provocare i Giudei con il Suo affermare di essere il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente. Infatti, quando venne l’ora di confessarlo dinnanzi al Sinedrio, Gesù tenacemente affermò di essere il Cristo, l’eterno Figlio di Dio (Matteo 26:63-54). Ma prima di ciò non poteva renderlo pubblico con una sua stesa ammissione, perché la cosa avrebbe solo aggravato i Giudei e li avrebbe istigati a catturarlo e ucciderlo appena avessero potuto e prima della Sua “ora” potesse giungere.

Indubbiamente, i Giudei sospettavano che Egli fosse il Cristo, il Figlio stesso di Dio, ma non dovevano essere inopportunamente provocati dalla affermazione di Gesù.

Dobbiamo notare che la confessione di Pietro era la base di quello stesso problema che vi era tra Gesù e I Giudei increduli. Essi non avevano nulla contro Gesù quando usava il Suo nome. Essi potevano anche tollerare i Suoi miracoli, se solo questi non avrebbero guadagnato il favore del popolo privando così questi leader iniqui dell’onore che ricercavano. Ma quando Gesù sostenne che i Suoi miracoli, opere e parole rivelavano che era stato mandato dal Padre, essi lo misero in discussione. Essi sapevano bene che essere il Messia promesso, il Cristo, significava che Egli era anche il Figlio di Dio.

Ma non ho ancora risposto appieno alla domanda. Credo che la domanda alluda al fatto che la Scrittura riporti strani e inaspettati comandi di Gesù dati a coloro sui quali Egli aveva compiuto miracoli, cioè il comando di non riferire a nessuno dei miracoli in questione. Perché mai tutto ciò?

Commentatori e studiosi della Scrittura hanno dibattuto la risposta a questa domanda per moltissimi anni. Forse una risposta facile non esiste. In molti esempi, le persone che avevano ricevuto tale comando, andavano a diffondere in lungo e in largo quello che Gesù aveva fatto per loro. In altri, invece, Gesù comanda direttamente a coloro ai quali compì miracoli di diffondere intorno la voce (Marco 5:18-20).

La mia opinione è che Gesù commando a queste persone di non dire chi Egli fosse e cosa avesse fatto perché molte persone, anche tra costoro che avevano sperimentato un miracolo di guarigione, non comprendevano il vero significato del miracolo e non capivano l’opera di Cristo nello stabilire il Suo regno. Anche i discepoli, dopo la risurrezione, fraintesero la natura del regno di Cristo. Essi pensavano continuamente nei termini di un regno terreno – qualcosa di simile a quello che fanno i post-millenialisti di oggi (Atti 1:6). Se i discepoli non capirono fino a Pentecoste, non possiamo aspettarci che il popolo capisse prima di essa.

Così Gesù, il quale sapeva che costoro avrebbero diffuso una concezione sbagliata del regno, gli disse di stare in silenzio a tal riguardo, al fine di evitare lo spargimento delle loro idee incorrette.

La predicazione di Gesù sulla vicinanza del regno poteva essere fatta benissimo anche senza entrare in un elaborata descrizione della natura di quel regno, specificando solo che era celeste. La vera natura del regno sarebbe stata resa chiara dopo Pentecoste quando lo Spirito sarebbe stato sparso.

Mi sembra che le persone sapessero che Gesù era il Re del regno che predicava. L’entrata trionfale a Gerusalemme lo prova. Ma la natura di quel regno non era pienamente compresa, nemmeno dai discepoli. Se le persone volevano parlare ad altri dei miracoli compiuti su di loro, relazionandoli al fatto che il regno era vicino, era meglio che essi non lo facessero affatto piuttosto che dare un’idea incomprensibile di tale regno. Prof. Hanko


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